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ARTICOLO TRATTO DA http://comitatoscuolapubblica.wordpress.com/

 

L’analisi ragionata sul documento “La buona scuola” non può non partire dal confronto tra il suo contenuto e il testo della Costituzione, patto fondativo della Repubblica Italiana e fondamento del suo ordinamento, documento il cui contenuto è quindi diritto e dovere di ogni cittadino e lavoratore rispettare e contribuire ad attuare:

Art. 3 “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.
E’ compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.

Art. 33 “L’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento. […]”

Art. 34 “La scuola è aperta a tutti. […]. I capaci e i meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi. […]”

Art. 97 ”[…] I pubblici uffici sono organizzati secondo disposizioni di legge, in modo che siano assicurati il buon andamento e l’imparzialità dell’amministrazione […]”

Art. 117 “[…] Lo Stato ha legislazione esclusiva nelle seguenti materie: […]

m) determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale
n) norme generali sull’istruzione
[…]

Art. 118 “[…] Stato, Regioni, Città metropolitane, Province e Comuni favoriscono l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà”.

Sulla base degli articoli sopra trascritti, si dovrà quindi esaminare se e come il documento denominato “La buona scuola” consente che i due attori principali della scuola come istituzione statale – docenti e studenti – vedano rispettato il dettato costituzionale e possano essi stessi contribuire a darvi attuazione.

Sarà necessario inoltre verificare se il contenuto del documento in esame consenta il rispetto dei diritti degli studenti e dei lavoratori della scuola (personale docente, ATA, direttivo), anche nelle relazioni che intercorrono tra loro.

Riguardo gli articoli 3 e 4, è evidente che la Repubblica è impegnata a garantire a tutti i cittadini la rimozione degli ostacoli che possano limitare di fatto la loro libertà ed eguaglianza, per cui compito della scuola deve essere quello di consentire a tutti gli studenti, indipendentemente dalla loro condizione sociale, economica e culturale di partenza, di raggiungere gli stessi traguardi.

Si tratta quindi di obblighi in evidente contrasto con il principio della meritocrazia, in base al quale invece si premiano gli esiti (secondo criteri/parametri di cui può essere dubbia l’oggettività) indipendentemente dalla considerazione delle situazioni di partenza, per cui, in un regime di competizione tra individui portatori di diverse storie personali, l’insuccesso è una colpa (così come vuole l’ideologia liberista, ma non come vuole la Costituzione democratica) che come tale va punita, mentre il successo è il giusto premio di chi si è impegnato (magari partendo da una condizione di privilegio iniziale) e quindi ha saputo avere la meglio su coloro che all’inverso potrebbero apparire pigri, indisciplinati, disobbedienti, svantaggiati.

L’esito dell’esperimento di autovalutazione (con il supporto dell’INVALSI) a cui hanno aderito alcune scuole nel 2011 dimostra al di là di ogni dubbio che gli elementi che hanno consentito alle scuole di piazzarsi ai primi posti nelle graduatorie regionali (v. dati pubblicati dalla Regione Lombardia) sono stati gli esiti delle prove INVALSI, mentre non hanno avuto alcun rilievo altri elementi che pure erano stati presentati come necessari per la valutazione, tra questi l’integrazione degli alunni disabili, l’integrazione degli stranieri, il potenziamento, il recupero, l’orientamento e cioè proprio quegli interventi che le scuole mettono in atto per rispondere al dettato costituzionale che impone di rimuovere gli ostacoli al raggiungimento di una effettiva uguaglianza tra tutti i cittadini.

A questo riguardo va ricordato che l’esperimento citato è stato concepito come una anticipazione di quanto verrà messo in atto per individuare le scuole “meritevoli” di maggiori risorse rispetto alle scuole che ne avranno sempre meno perché più attente all’obbiettivo dell’uguaglianza tra i cittadini-studenti. Si legge infatti (p. 66) che “il finanziamento per l’offerta formativa – a partire dal MOF – sarà in parte legato all’esito del piano di miglioramento scaturito dal processo di valutazione”, dove si presume e si impone di credere nell’oggettività degli strumenti di valutazione: ma cosa significa essere i migliori? in cosa consiste il merito (dei singoli studenti e dei singoli Istituti) e in cosa la colpa? quando è ormai noto, con l’esperienza degli anni passati, che gli strumenti di rilevazione INVALSI sono spesso scorretti e inadeguati rispetto a ciò che vorrebbero misurare.

Del resto, entrando in palese contraddizione, lo stesso documento ministeriale riconosce (p. 99) che “il punto forte del sistema italiano” è quella scuola primaria che ci si dimentica di dire è stata ormai archiviata con la “Riforma Gelmini”, ma che, quando le rilevazioni internazionali le riconoscevano livelli di eccellenza, era concepita per favorire l’inclusione, le pari opportunità per tutti i bambini, indipendentemente dalla loro provenienza socio-culturale ed economica, attraverso il lavoro collegiale, collaborativo (v. compresenze e tempo prolungato) e non con la competizione, la premialità del presunto merito.

Così, nel contesto europeo al quale spesso si afferma di voler fare riferimento, l’eccellenza riconosciuta al sistema formativo finlandese è legata all’assenza dello strumento di valutazione a cui fanno invece riscontro metodi il più possibile inclusivi.

Si può infine osservare come la distribuzione ineguale di risorse sia in palese conflitto anche con l’articolo 97 della Costituzione quando impone che i pubblici uffici (quindi anche la scuola) siano organizzati in modo da assicurare il buon andamento e l’imparzialità dell’amministrazione e non la creazione di fatto di scuole di serie A e di scuole di serie B o C.

Sempre riguardo alla valutazione delle singole scuole al fine dell’assegnazione delle risorse, emerge un ulteriore elemento di perplessità: a p. 65 si afferma che “la scuola è il primo ambito della vita in cui i giovani apprendono il valore educativo della valutazione: i primi 4 e i primi 7 in pagella li abbiamo presi proprio a scuola. Sarebbe assurdo applicare questo principio a tutti tranne che alla scuola stessa”, dove è lecito domandarsi quali sono i “tutti” a cui si applica il principio della valutazione, ma anche quali sono gli ambiti delle istituzioni e degli enti statali per i quali si sia ritenuto di dover consultare potenzialmente tutti i cittadini perché si esprimano riguardo a proposte di riforma? E’ stata fatta forse una consultazione generale sulla riforma delle pensioni, su quella dello Statuto dei lavoratori o sui progetti di riforma della Magistratura? Sembra che si ritenga che chiunque è competente solo in un dibattito (se tale si vuole intendere quello attualmente in corso) sul sistema dell’istruzione.

Tornando alla questione della distribuzione delle risorse, la scuola disegnata dal documento appare (p.76) come una scuola caritatevole, in cui” la didattica viene fatta sui dispositivi di proprietà degli studenti, e le istituzioni intervengono solo per fornirle a chi non se le può permettere”, eliminando brutalmente il principio dell’universalità delle prestazioni nei servizi pubblici, così come affermato dall’art. 3, c. 2, della Costituzione.

Quanto stabilito dall’art. 97 della Costituzione trova ulteriore conferma e approfondimento all’art. 117 che riconosce allo Stato la legislazione esclusiva sulla determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali (compreso ovviamente quello all’istruzione, da godere quindi ovunque allo stesso livello) che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale.

Ma la garanzia di effettiva uguaglianza nel godimento dei diritti civili e sociali è affermata dalla Costituzione non solo per quanto riguarda la distribuzione delle risorse, ma anche per l’ordinamento delle istituzioni che non può essere delegato all’iniziativa dei cittadini, singoli o associati (privi di potere legiferante e ordinamentale), ai quali viene invece riconosciuto solo il diritto di agire per lo svolgimento (non, appunto, per l’ordinamento o per la definizione del curriculo) di attività di interesse generale.

Si arriva quindi a un altro nodo rilevante contenuto nel documento in oggetto.

A p. 98 si apre infatti il capitolo dedicato al curricolo, dove si afferma che “su un cuore di discipline base snello e comune a tutti”, le scuole avranno la possibilità “di modulare la propria offerta attraverso la scelta di diverse discipline opzionali”, rompendo così con un sistema che viene definito “troppo legato alle cattedre”. Il “curricolo d’Istituto” sarà quindi “il modo che ogni scuola ha per esprimere l’attività della propria comunità professionale (che non viene meglio definita: è il corpo docente? sono i rappresentanti del “territorio”, le “competenze esterne” a cui si fa cenno a p. 76?), le proprie decisioni rispetto ai contenuti e agli stessi metodi di insegnamento (con buona pace della libertà d’insegnamento garantita dall’art. 33)”.

Passando ora ai lavoratori della scuola, il primo elemento che contraddistingue il documento è che essi vengono considerati “capitale umano”, “risorsa” da usare nel “mercato” del servizio pubblico e non lavoratori portatori di diritti.

Il piano di assunzioni dei precari che viene annunciato è apertamente riconosciuto come la via obbligata per non incorrere nelle sanzioni dell’Unione Europea (ben più onerose) contro il mancato passaggio da contratti a tempo determinato a contratti a tempo indeterminato per coloro che hanno prestato servizio per più di tre anni. Va ricordato, comunque, che questo piano di assunzioni non comporterà, come forse si vuole far credere, un cambio di rotta nel senso di un vero e consistente investimento nel sistema d’istruzione, dal momento che i precari sono stati lavoratori che lo Stato ha dovuto retribuire (spesso in grave ritardo) negli anni passati, perché assolutamente necessari al funzionamento dell’istituzione. Per loro, peraltro, si prospetta un lungo periodo di blocco delle retribuzioni che saranno poi, per tutti, legate “al merito”.

Un aspetto particolarmente inquietante del documento è che si vuole introdurre l’organico di rete: docenti giovani (pochi) e anziani (la maggioranza) saranno in balia delle decisioni insindacabili del Dirigente che, dopo aver solo “consultati gli organi collegiali, potrà chiamare nella sua scuola docenti con un curriculum coerente con le attività con cui intenda [al singolare] realizzare l’autonomia e la flessibilità della scuola” (p. 68).

Non è ben chiaro come questo potere attribuito al Dirigente si concili con la “continuità didattica” citata a p. 58, ma anche con altre affermazioni che compaiono nel documento, come quella (forse involontariamente umoristica) che consiglia ai docenti “mediamente bravi”, ma forse anche carrieristi e un po’ furbacchioni, di “spostarsi in scuole dove la media dei crediti maturati dai docenti è relativamente bassa e quindi verso scuole dove la qualità dell’insegnamento [misurata come?] è mediamente meno buona, aiutandole così a invertire la tendenza [o meglio trovando spazio per entrare personalmente in quel 66% di meritevoli di scatto stipendiale, con i quali invece in una scuola dove ci sono molti più insegnanti “bravi” non riuscirebbero a competere]” (p. 58).

Ma se i docenti sembrano consegnati al giudizio insindacabile del Dirigente, il personale ATA subisce una sorte ancora più drammatica, dal momento che (p. 83) si afferma chiaramente che “a mano a mano che la digitalizzazione delle scuole diventerà più capillare, la smaterializzazione e l’efficientamento dei processi amministrativi potranno portare ad una considerevole riduzione del peso sugli assistenti amministrativi, ad un ridimensionamento progressivo del loro numero, e pertanto ad un possibile risparmio di risorse che potranno essere reinvestite nella scuola, proprio – ad esempio – per migliorarne ulteriormente i servizi”: le maggiori risorse che si vorrebbe far credere vengano attinte fuori dalla scuola in realtà sarà la stessa scuola a fornirle. E’ vero per i tagli al personale amministrativo così come per gli scatti di competenza per i docenti, in sostituzione di quelli di anzianità (si taglia al 34% di loro per dare al 66%) e per il MOF i cui fondi verranno ricavati dai tagli interni al sistema dell’istruzione.

Del resto l’apertura delle scuole oltre l’orario curriculare viene immaginata come un’attività da affidare al lavoro gratuito di volontari, associazioni, ecc… (p. 76).

Cosa conterrà, per quanto riguarda la materia contrattuale, l’annunciato nuovo Testo Unico (p. 73) non è ancora possibile sapere, anche se i segnali contenuti nello stesso documento in esame sono tutt’altro che positivi (v. ruolo marginale degli organi collegiali, rapporto Dirigente- docenti e DSGA- ATA, ingresso dei privati nella gestione della scuola, ecc…).

Se passiamo ad esaminare quanto riguarda gli studenti, oltre a ricordare come vengano privati del godimento effettivo di quanto imposto dalla Costituzione e all’atteggiamento lesivo della loro dignità contenuto nel programma della scuola caritatevole che dà gli strumenti più moderni solo a chi non se li può procurare privatamente, vale la pena leggere i messaggi che si possono cogliere dietro alcune affermazioni, ma anche espressi in forma esplicita. Di fatto l’educazione al pensiero divergente, all’atteggiamento critico, riflessivo sembra venga assegnata solo alla musica e all’arte, materie d’insegnamento che non si può certo dire siano state valorizzate dalle recenti riforme della scuola (v. eliminazione della Storia dell’arte da gran parte degli indirizzi della scuola secondaria superiore), mentre gli studenti vengono insistentemente descritti come destinatari dell’addestramento al mestiere, come esecutori di operazioni esclusivamente manuali, nel senso letterale che viene attribuito all’aggettivo “digitale”. Finalità prioritaria della scuola sembra infatti quella di preparare tecnici da avviare al lavoro in azienda, come si capisce chiaramente dallo spazio dato all’alternanza scuola-lavoro, un lavoro che richiederebbe comunque una solida preparazione di base (oltre a una altrettanto solida educazione alla cittadinanza consapevole) in riferimento non alla microspecializzazione ma proprio alla “flessibilità” che lo stesso “mercato del lavoro” richiede.

La scuola disegnata da questo documento non sembra prevedere altre forme di lavoro fuori dei confini angusti dell’azienda privata: non c’è più spazio per il lavoro intellettuale o autonomamente creativo né per la ricerca pura, o si immagina che ad essi siano destinate esclusivamente le élite privilegiate che potranno acquisire privatamente una formazione adeguata solo grazie alle loro disponibilità economiche.

In conclusione la “buona scuola” sembra quindi una scuola caritatevole, sottofinanziata e destinata a sfruttare lavoratori in balia dei Dirigenti e delle esigenze del “territorio” e ad offrire manodopera obbediente e sottomessa alla volontà e alla volubilità del “mercato.